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Cronache di NUOVA MEMORIA ( VII )

Dottor Federico Raimondi, Reparto Covid, Ospedale Papa Giovanni XXIII Bergamo, Dicembre 2020

Salve Dottor Raimondi, ci può raccontare qualcosa su di lei?


Mi chiamo Federico, ho 30 anni, sono medico da 4 anni e padre da 6 mesi. Sono stato assunto come libero professionista in Pneumologia nell’ASST Papa Giovanni XXIII di Bergamo da Marzo, per l’emergenza Covid. Attualmente sono all’ultimo anno di specializzazione in Pneumologia, sotto la guida del Prof. Di Marco.


Se dico pandemia qual è il primo pensiero che le viene in mente?


Più che un pensiero mi vengono in mente una serie di immagini e sensazioni forti, impresse soprattutto durante la prima ondata. Luci artificiali, tute impermeabili che legano i movimenti, dolore al naso e alle orecchie, occhi sbarrati dei colleghi, corpi, barelle, rumore di allarmi e di gas ad alti flussi.


In quanto medico è molto probabile lei avesse già sentito parlare di pandemia prima che arrivasse questa. Ma aveva mai pensato di doverne affrontare una in prima persona e di questa portata?


No. Assolutamente no, e soprattutto non di questa portata.


Quando hanno iniziato a portare i pazienti covid-19 al Papa Giovanni XXIII, si ricorda cosa ha provato e cosa ha pensato?


Il primo paziente l’ho visto a fine Febbraio, lo scrutavo dai vetri del box dell’isolamento, e sono rimasto a guardarlo per alcuni minuti, guardando il foglio del laboratorio analisi su cui compariva la scritta POSITIVO. Mi sembrava assurdo che ciò che al telegiornale sembrava essere così lontano da noi in realtà fosse proprio lì sotto i miei occhi. Poi ricordo una crescita esponenziale per qualche giorno, fino alla notte del mio compleanno, il primo Marzo, notte in cui sono stato chiamato per prestare servizio. E beh, si allora quella notte fu chiaro che gli argini erano saltati e ci stava travolgendo qualcosa di più grande di tutti noi.


Come sono cambiati la sua vita, il suo lavoro e le sue abitudini con la prima ondata?


Stand-by. Penso che la mia intera vita sia stata messa in stand-by per almeno 2 o 3 mesi. Non ricordo le giornate come diverse tra loro, ricordo gli eventi come un’unica lunga giornata e un’unica lunga notte, probabilmente durate settimane, ma data la quantità di tempo passato in ospedale non mi è possibile ricordare con precisione. Tornavo a casa solo per dormire se non ero in servizio.


Qual è stata la cosa più difficile da affrontare?


La cosa più difficile è stata mettere il “pilota automatico” per così tanto tempo. Imporsi di non pensare troppo a quello che avveniva sotto i miei occhi e continuare a cercare di salvare più persone possibili, rimandando il momento per l’introspezione e dell’elaborazione di ciò che stava avvenendo. A volte, tornando a casa, provavo una sensazione di vuoto allo stomaco, come vertigine, paura e senso di colpa, allora cercavo di pensare ad altro perché in quel momento non potevo permettermi di incrinare

quello strano equilibrio che mi permetteva di fare il mio lavoro giorno dopo giorno.


C’è qualcosa di diverso in questa seconda ondata?


Sì qui a Bergamo la seconda ondata non è stata paragonabile alla prima ondata. Ho avuto modo di vivere gli eventi con più consapevolezza e calma interiore, sono riuscito per certi versi ad essere il medico che avrei voluto essere durante la prima ondata. Avere tempo di prendermi cura anche del lato umano dei pazienti, piccole cose, una videochiamata, un giornale regalato, fare gli auguri di compleanno, cose piccole ma molto difficili da fare durante la prima ondata.


Come è riuscito a gestire la preoccupazione per la sua famiglia?


Abbiamo vissuto tutti isolati, fin dall’inizio, questo mi ha concesso di essere più tranquillo per loro.


Ci può raccontare un fatto particolare (o più di uno se ne ha) che le è successo durante questa pandemia?


Ricordo una notte di fine Marzo, prestavo supporto sui piani per i colleghi di altre specialità che magari avevano meno dimestichezza di me con le apparecchiature respiratorie. Un paziente venne a mancare e mi trovai a consolare un collega più anziano di me, di un’altra specialità, cercavo di sollevargli il morale e fargli razionalizzare che non sarebbe potuta andare diversamente e che aveva fatto tutto il possibile, cercavo forse di convincere anche me.

Ricordo poi le notti passate ad aspettare le prime luci dell’alba dalle vetrate, a fare in modo che tutti i pazienti arrivassero vivi a fine turno, ad aspettare i colleghi che venivano a darmi il cambio permettendomi di tirare il fiato per qualche manciata di ore.


Qual è stato l’evento che più l’ha cambiata, se c’è stato?


È stato tutto l’evento a cambiarmi, non saprei identificare un singolo episodio.


Cosa vorrebbe dire a qualcuno che non crede all’esistenza del COVID (i cosiddetti negazionisti) anche rispetto a quello che ha vissuto sulla sua pelle come medico e come persona?


Provo molto dispiacere. Penso a tutte le persone che non ce l’hanno fatta, alle famiglie devastate dai lutti, ai figli rimasti senza genitori. Mi sembra un’immensa mancanza di rispetto tra pari, una forma di disuguaglianza dove chi ha avuto più “fortuna” si permette di negare il primum movens delle sofferenze altrui. In secondo luogo rende molto più difficile continuare giorno dopo giorno a cercare di mettere le pezze ad una situazione tragica. Il fatto di essere passati da “eroi” a “parte del complotto” è semplicemente una visione alterata di tutta la faccenda, sia in un senso che nell’altro. Siamo professionisti sanitari, è il nostro lavoro, l’abbiamo sempre fatto e continueremo a farlo, non abbiamo bisogno di altre etichette se non quelle che già abbiamo: medico, infermiere, fisioterapista, operatore sociosanitario, e così via.


Siamo tutti d’accordo che una pandemia non abbia in sé niente di positivo ed anzi questa ha portato molto dolore e sofferenza, ma c’è qualcosa che vorrebbe raccontarci che ha imparato da questo periodo malvagio?


È un concetto difficile da spiegare in poche righe. Penso si possa riassumere così: ho imparato che non esiste solo il punto di vista “tecnico” dell’essere medici, bisogna concentrarsi sulla persona. Certo, non sto dicendo nulla di eclatante, ma è molto difficile farlo quando anche noi in prima persona siamo in uno stato di alterazione emotiva e siamo provati. Prendersi il tempo per regolare il letto all’altezza giusta, recuperare una coperta, aprire il casco per fare bere un sorso d’acqua. Queste cose permettono di far tornare a casa con la coscienza un po’ più a posto. Ho imparato a non sottovalutare questi aspetti, perché ci sono stati dei momenti in cui era l’unica cosa che poteva far la differenza.


Ci può lasciare, se lo ha, un messaggio di speranza per il futuro?


Non lo so. Sarei fasullo se trovassi un messaggio di speranza che sinceramente non sento. Mi auguro che tutta questa faccenda, quando finirà, non finisca come le ultime scene del Truman Show, dove gli spettatori ormai stanchi dello show cambiano canale come se nulla fosse. Io spero che ognuno abbia modo di riflettere “prima di cambiare canale”, non so su che cosa, ognuno su ciò che ha imparato da questo evento epocale.


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